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Appendice a «Il sentire delle Macchine» 
Estetica ed arte cibernetica 
Harold Cohen-AARON e le prime forme dell’arte cibernetica 

Due sono le principali ed attuali direttrici, a mio avviso, su cui bisogna indagare per conoscere per dove passano le novità nel campo sia artistico che filosofico che tecnologico. Da una parte vi è come oggi intendiamo l’arte e lo chiediamo allo Stato, ai Musei, ovvero quali leggi regolano la conservazione dell’opera d’arte. Dall’altra parte lo chiediamo alla estetica, come si pensa il sentire fisiologico, o meglio, alla tecnologia per comprendere come si produce la nuova informazione artistica. 
È acclarato che il concetto di «arte» oggi sia sempre piú assorbito da quello di «Bene culturale» (perché, brevemente, qualsiasi produzione umana, o ambiente storico o paesaggistico, ecc. ora viene conservato, dopo i cinquant’anni, con la stessa cura come se fosse un’opera d’arte). Musei di arte contadina, di arte del design, dell’automobile, dei manifesti pubblicitari, dei monili, degli ori e dei gioielli, dei vestiti, o della scienza e della tecnica, ecc. sorgono dovunque al pari di quella delle arti visive tradizionali, oltre a quelli delle nuove arti (come la fotografia, il cinema, della computer art, ecc.): 
La produzione artistica (e umana) è, con maggiore frequenza, considerata come struttura comuncativa costituita di materia (o struttura informativa organizzata —dal momento che la nuova fisica ci ha rivelato che la materia è aggregato di atomi di natura e sostanza mentale —) e pensiero. Essa, in effetti, si manifesta come un sistema d’informazione già organizzato. 
Il problema di coservazione del Bene culturale, al pari dell’opera d’arte, sposta l’osservazione dal soggetto all’oggetto, dalla fenomenologia della produzione del soggetto alla fenomenologia del prodotto — o della produzione — in un certo ambiente. Questo evento, che si manifesta come informazione sulla organizzazione dell’ambiente e sulla costituzione dell’oggetto e sul sistema di pensiero che lo genera, è indicato dai filosofi cibernetici col termine di eterofenomenologia. 
La cibernetica, appunto, è costituita sia dalla scienza, che dalla filosofia, che dalla tecnologia, nonchè dal punto di visto di un osservatore, inteso come sistema biologico vivente (o meno), che organizza informazioni che interagiscono con un dato ambiente. 
La cibernetica si interessa, inoltre, del sistema di assemblaggio di nuovi materiali e si avvale di scoperte fatte attraverso strumenti nuovi, come ad esempio le nanotecnologie. 
La pratica cibernetica abbraccia campi teorici e pratici e tratta dei modelli dell’organizzazione dei sistemi biologici, sia quelli viventi che quelli che non lo sono. Studia progetta e realizza le macchine «intelligenti», che ricevono e trasmettono informazioni. Si interroga su come chiamare queste macchine fornite di programmi autodiretti, che agiscono nel mondo attraverso sistemi che assomigliano a quelli di un «essere» umano (sarebbe più preciso oggi usare il termine di sistema biologico vivente umano per indicare l’uomo, eliminando ogni tentazione metafisico-ontologica). 
Osservando queste innovazioni tecnologiche che stanno modificando la vita ad un numero sempre maggiore di persone viene d’interrogarsi su come stia cambiando il modo di produrre l’arte e quali probemi tra breve si dovranno affrontare con l’estetica cibernetica e con l’arte cibernetica. 
Da anni molti centri di ricerca sul computer stanno lavorando insieme ad artisti per trasferire il fare della produzione artistica del «poiein» a programmi costruiti dall’uomo. Uno dei tanti fini è costruire un pensatore meccanico che possa produrre arte. Questo «pensatore meccanico» (il programma del computer) è stato spesso connesso ad un appendice robotica, Le prime appendici sono state delle leve meccaniche e si muovevano come se fossero state le braccia meccaniche del computer, alla cui estremità era stata collegata una grafite con cui il software produceva (tecne) «opere» su fogli di carta, che qualcuno lungimirante fin dal 1987 reputava già «opere d’arte». 
L’estetica cibernetica, applicata nel mondo dell’arte, s’interessa dell’informazione trasmessa a partire da questi primi «artisti robot» o «automi artisti» elaboratori delle informazioni estetiche. 
Il problema che qui si pone è se i produttori di queste informazioni siano le opere dei robot artisti o artistico è divenuto il programma che li guida. A questa dilemma si vuol prendere parte solo marginalmente. I corni del problema volutamente sono solo enunciati per i dibattiti che potranno aprirsi finalmente anche in Italia. 
In questa introduzione all’arte cibernetica ripercorreremo brevemente la storia del primo costruttore di un artista robot e delle motivazioni che portarono un artista affermato ad essere pioniere nel mondo della meccanica dell’informazione artistica, nonostante si stesse conquistando la reputazione di uno dei migliori artisti britannici degli anni ’60, avendo esposto, tra l’altro, più volte alla Tate Gallery di Londra. 
Harold Cohen era un valente artista inglese dal futuro sicuramente luminoso nei circuiti dell’arte. Dal 1952 al 1968 la sua ricerca si era centrata sui dipinti astratti, che esplorassero anche il mondo dei colori e delle forme. Il suo interesse formativo era orientato su due fronti: da una parte nuovi colori e forme e dall’altra tentava di comprendere attraverso quali processi sarebbero potuti sorgerti  negli osservatori una gradazione di effetti estetici. Egli, nel corso del tempo, aveva raggiunto ottimi risultati cromatici e di forme e, pertanto, i suoi dipinti erano celebrati dalla critica inglese tanto che la Tate Gallery acquisì, alcune di queste opere, nella sua collezione permanente d’arte contemporanea. Dal 1964 in poi fu il periodo in cui Cohen era invitato ad esporre nelle piú prestigiose gallerie d’arte del Regno Unito. La sua carriera era ormai ben indirizzata, essendo Cohen diventato un pittore di successo. 
Harold, invece, era insoddisfatto e desiderava rendere cosciente e programmabile il proprio processo artistico. Non a caso egli intendeva la creazione artistica  come un processo analitico, ovvero doveva essere un modo per poter esplorare ciò che egli definiva «le macchine sistematiche e i processi della comunicazione». Il suo lavoro era finalizzato a comprendere il rapporto che collegava le metodologie della costruzione dell’opera, alle immagini prodotte e agli effetti che esse causavano sul pubblico. 
Il soprintendente del museo per la Tate gallery di Londra, Michael C. Compton, ha descritto i dipinti di questo artista come se fossero degli esperimenti scientifici, tenendo conto proprio delle linee teoriche che Cohen stesso tracciava. Compton, infatti, nel ripercorre le tappe di quel periodo dell’artista, quando questi esplorava gli effetti sul pubblico delle forme che apparivano sovrapposte le une alle altre, oppure adiacenti, o poste su piani diversi, affermava che «Nel 1962 — Cohen — aveva iniziato una ricerca sugli elementi fondamentali della simmetria  e dell’asimmetria, della ripetizione e della variazione, degli effetti spaziali delle diagonali e dell’interrelazione delle linee con i campi di colore. […] Una serie di dipinti nel 1966 era stata composta sulla base di regole che stabilivano il movimento di una linea in relazione ad uno sfondo preesistente ed emulsionato di colore. Un’ultima sperimentazione di dipinti, fra il 1967 e il 1968, era stata ottenuta spruzzando il colore attraverso mascherine che avevano buchi a forma di ellisse e che si sovrapponevano ad uno sfondo già aspèrso in modo irregolare e facendo sì che l’interrelazione dei due strati generasse nello spettatore la sensazione di trovarsi di fronte ad una serie di oggetti nello spazio». 
Cohen durante gli anni sessanta si concentrò sulla meccanica del significato. Egli iniziò ad interrogarsi secondo quale procedimento un artista tracciava dei segni e come un fruitore metteva in relazione quei segni traendone un significato. 
L’insoddisfazione iniziò ad aleggiare, dopo dieci anni di esplorazione dei processi artistici. Egli così ricorda quel periodo: «Avvertivo una notevole frustrazione per la stasi in cui versava il mio lavoro. Oh, andava benissimo. Tutti dicevano che era splendido, ma verso la fine degli anni ’60 ebbi la sensazione che tutti i miei sforzi non servissero altro a catalogare i vari modi in cui certe immagini potevano rappresentarne altre. Dopo quasi un decennio, non percepivo in alcun modo di essermi avvicinato alla comprensione dei meccanismi profondi: stavo soltanto raccogliendo dati, non costruivo alcuna teoria». 
La situazione cambiò nel 1968, quando Harold Cohen fu invitato all’Università di California di San Diego. Egli era stato chiamato, come docente esterno, a tenere un corso annuale sull’arte. 
Durante questo periodo Cohen conobbe un musicista fanatico dei computer che lo convinse ad imparare i rudimenti della programmazione. In poco tempo Cohen si appassionò alla programmazione. Egli iniziò a lavorare su come programmare un computer che potesse disegnare una figura chiusa. 
Se per una persona è abbastanza semplice tracciare una linea chiusa che racchiude una parte di spazio, poteva farlo un computer? Egli, un artista, sarebbe stato in grado di scrivere un programma per computer che fosse in grado di disegnare qualcosa che sembrasse tracciato da un uomo a «mano libera»? 
Il problema fu affrontato da Cohen prendendo in analisi la propria procedura attraverso cui egli stesso, inconsciamente, procedeva nel disegnare una figura. 
Egli trovò le prime regole generali di composizione: 
(1) La prima era quella di tracciare una linea a partire da una direzione qualsiasi. 
(2) Una seconda fu quella che quando ci si avvicinava al bordo della carta si poteva o curvare o continuare. 
La terza e la quarta regola furono indicazioni sulla organizzazione della figura e su quando il programma del computer dovesse considerare conclusa la composizione, infatti: 
(3) appena la matita va verso la direzione iniziale, giungendo dal verso opposto, c’è un ritorno al punto di partenza; 
(4) quando si raggiunge questo punto, bisogna fermarsi perché la figura è completata. 
A queste regole vanno aggiunte altri dettami della logica binaria, tradotte in istruzioni del tipo «se… allora…». Tutte queste istruzioni costituivano un semplice programma che era in grado di disegnare «a mano libera» delle forme sullo schermo di un computer, o su di un foglio di carta se veniva utilizzato un plotter (questo è un congegno meccanico guidato da un computer che muove la penna sul foglio di carta). 
Trovate le regole, poi bisognava dare le istruzioni al computer, evento non semplice. La traduzione avveniva allora attraverso una procedura lunga e farraginosa, bastava la mancanza di una virgola nella trascrizione su di una scheda e il programma non funzionava. 
Bisognava, infatti, trascrivere nel linguaggio del computer le istruzioni. Il computer allora usava un programma Fortram e una elaborazione batch, in cui ogni riga del programma andava scritta, come ricorda lo stesso Cohen, «con una macchina perforatrice su di una scheda IBM, in essa lettere e numeri erano codificati in base a gruppi di forellini. Poi queste schede andavano portate al centro di elaborazione, dove c’era il computer: Si consegnava il tutto ad un tecnico che, quando giungeva il nostro turno, inseriva le schede nella macchina. Il giorno successivo venivano ritirati i risultati stampati da una telescrivente su di un modulo continuo di carta a strisce verdi e bianche. In quei primi giorni dell’era del computer, non era  possibile che ci si potesse sedere davanti allo schermo di un terminale e comunicare direttamente con la macchina, darsi da fare con un programma fino a farlo funzionare». Allora poteva capitare che il programma potesse contenere degli errori, infatti, ricorda ancora Cohen, «Se si era fortunati, la stampa conteneva un messaggio che indicava l’errore e che aiutava a comprendere che cosa non funzionasse nel sistema creato. Si doveva, pertanto, cercare tra le schede e sostituire quella trascritta in modo sbagliato, per poi ritornare al centro di elaborazione e ripetere il percorso». 
Solo alla fine si potevano vedere le figure. Queste erano il risultato di una procedura, sebbene ideata da un essere umano, elaborata al momento dalla macchina, secondo uno svolgimento e una scelta finale che poteva essere giudicato - per l’autonomia - un metodo «euristico», proprio per la presenza di regole che erano generiche e abbastanza flessibili. Era accettabile, per Cohen, qualsiasi soluzione che la macchina trovava mettendo in atto quei procedimenti. Il fascino che esercitò il computer su Cohen consistè soprattutto nel fatto che «si potevano scrivere programmi che in un singolare modo somigliassero al pensiero». In effetti attraverso il computer si poteva esplorare la creatività artistica: infatti  per Cohen, «il motivo di maggior interesse è sempre stato il desiderio di simulare con una macchina alcuni aspetti dell’attività intellettuale. Chiaramente nel mio caso gli aspetti riguardano in modo speciale la creazione di immagini, o la capacità di interpretare immagini, perchè dal mio punto di vista si tratta in fondo della stessa cosa. Da allora, sono stato seduto qui a battere su di una tastiera di computer». 
Il primo impatto con la programmazione era giudicato da Cohen come un esercizio intellettuale, poi si persuase che era lo strumento adatto per sperimentare e provare le sue convinzioni sull’attività creativa. 
Questi primi esperimenti artistici di Cohen lo indussero a prendere la consapevolezza che se avesse voluto sviluppare una qualche nuova teoria avrebbe dovuto indagare a fondo sulla natura della mente. 
L’intuizione  che ebbe Cohen, mentre continuava ad analizzare se stesso durante la produzione dell’opera, consistette nel mettere in relazione le funzioni della mente col computer. Egli pensò, infatti, che se l’azione creatrice di un artista avesse in qualche modo una certa attinenza con le funzioni della mente questa, a sua volta, avrebbe dovuto funzionare come un computer digitale. La mente analizzava, selezionava e sceglieva velocemente informazioni, quelle piú adatte e consone alla formazione dell’opera, in base ad un programma che si muoveva sul rapporto «se… allora…», o regole euristiche (in questo caso di verità operative), queste ultime sono le funzioni compositive che costituiscono un programma digitale. In questo modo l’artista era in grado di comunicare col suo pubblico. 
Cohen pensò di essere possessore di una serie di programmi mentali, che mettevano in moto una sequenza di procedure con cui creava i suoi quadri. Il pubblico, dal canto suo, osservando le immagini dell’artista attivava quella sequenza di procedure che permetteva di entrare in una serie di programmi, o dispositivi, attraverso cui veniva decifrata l’informazione. 
Dopo l’anno di insegnamento a San Diego, Cohen non solo rimase a tempo pieno nel corpo insegnante di quella università, ma incontrò una fotografa, Becky, che diventò la sua seconda moglie e con cui si stabilì nella California meridionale. 
Il progetto di un programma che fosse molto più abile e che esibisse prodotti artistici più interessanti spinsero Cohen a cercare fondi di ricerca per lavorare su un computer più sofisticato. 
Le reticenze delle fondazioni, per cui non gli accordarono i fondi richiesti, erano che un artista non poteva imparare un programma tecnico come il Fortram. 
Egli dovette aspettare il 1972, quanto quel suo progetto finì tra le mani di Feigenbaum, che lo invitò a recarsi al laboratorio di intelligenza artificiale, come docente esterno, della Stanford University. 
Nel primo anno Cohen dovette assimilare dalla programmazione alla cultura della scienza cibernetica, ovvero quel sistema binario del «se… allora…», alla conoscenza della macchina di Turing, alle funzioni operative che muovono la AI [Artificial Intelligence], ecc. 
Fu in quel periodo che divenne assertore della scienza della programmazione cibernetica e del dogma che la muove: tutto ciò che è si può spiegare, può essere programmato, e quindi inserito in un sistema operativo di una macchina. 
Egli sviluppò la propria ricerca nella direzione di una programmazione che creasse disegni. 
Quali disegni? 
Durante una gita a Mammoth, nella Chalfant Valley, Cohen nel 1972 si imbattè nei petroglifi, ovvero in quei primitivi graffiti incisi sulle rocce delle momtagne della zona sud-occidentale degli Stati Uniti da una civiltà che era vissuta tra 500.000 e 15.000 anni fa. 
Questi graffiti portarono Cohen ad una serie di riflessioni sia sull’arte che sulla organizzazione delle informazioni. 
Una parte dei petroglifi erano facilmente interpretabili. Si trattava di figure imprecise che rappresentavano uccelli, animali o volti umani. 
Dall’altra parte tutta una serie di segni, che si possono definire astratti: una serie di cerchi, ovali, triangoli e quadrati. Alcune di queste figure erano vuote altre contenevano all’interno altri segni. Erano una serie di segni semplici e complessi composti da linee parallele, a croci, a griglie, ecc., simile a quant’altro era stato rilevato dalla embriologia pittorica di Rodha Kellogg. 
Ciò che impressionò Cohen è che di solito i petroglifi erano abbastanza piccoli, non più grandi di pochi centimetri. Nella California meridionale invece incontrò quelli della grandezza di due metri circa e il posto su cui erano tracciati, non solo era molto visibile, ma era stato scelto per aumentarne l’effetto. Sembrarono a Cohen che questi petroglifi fossero stati tracciati per qualche ragione speciale. 
Egli iniziò a porsi nei loro confronti, come se fossero opere d’arte e pertanto ne ricercò il significato. 
Egli partì dalla analisi della storia e della cultura, in quanto è risaputo che sono i primi passi della ricerca, per conoscere il «cifrario» dell’artista, attraverso cui questi ci vuole trasmettere il proprio messaggio, sia con i tratti o i colori di un dipinto. La ricerca andava fatta o attraverso la propria esperienza o bisognava cercarne le informazioni in biblioteca. 
Ben presto egli intese che quei simboli che voleva decifrare erano di una cultura estinta, che non ha lasciato né tradizioni né testimonianze. 
Nonostante che fossero trascorsi migliaia di secoli e il messaggio — o meglio il cifrario, per Cohen — si era estinto, quei segni erano comunque la testimonianza di una o più intelligenze che l’avevano disegnati. Se quei simboli fossero stati prodotto di una intelligenza, allora dovevano avere uno scopo ben preciso. 
Egli prese quei segni a modello e li fece diventare elementi essenziali del processo creativo con cui programmare un computer che generasse immagini. Essi furono messi a fondamento dei processi creativi del computer, come il momento preformativo di costruzioni artistiche. I prodotti di quel popolo primitivo, a mio giudizio, non sono stati mai molto lontani dalle scoperte della Kellogg, di quel periodo, sull’arte infantile e sull’arte infraumana. (Non dimentichiamoci che negli anni ’60 quattro opere dello scimpanzé Congo, mostrate da Rensch — senza rivelare la provenienza —, erano state giudicate da novanta individui, — tra questi molti critici d’arte contemporanea, — meglio di Picasso e Reid). 
Cohen però non conosceva questi studi. Egli nel frattempo si chiedeva perché l’uomo è sempre tentato dall’interpretare qualsiasi segno, anche quelli di cui non ne riconosce il senso originario. Voleva sapere per quale motivo siamo sempre affascinati dal classificare e decodificare segni, specie quelli che non hanno alcuna attinenza con le cose concrete. Questo nostro desiderio di classificare è stato definito da Cohen «il paradosso del significato persistente». 
Egli, in quel periodo, si concentrò sulle strutture e da quali origini prende forma il processo di organizzazione dei processi mentali, che vengono comunemente utilizzate dagli uomini per creare ed interpretare le immagini. 
Esiste per Cohen un meccanismo di fondo, che si basa su pochi segni ordinati, che permette agli uomini di comunicare e di trasmettere informazioni. Egli crede che fino a quando questo meccanismo di fondo è condiviso dagli uomini essi saranno in grado di comunicare. 
L’artista-progettista aveva trovato nel concetto di organizzazione della filosofia cibernetica un significato effettivo, che si generava «più dalla struttura dell’immagine che dal suo contenuto». Si spiega cosí perché allora si interessava alle «strategie rappresentative» attraverso cui nel corso dei secoli l’uomo creava immagini. Ogni strategia rappresentativa, infatti, mette in campo una serie di regole per produrre le immagini legate alle teorie artistiche o estetiche o poetiche ecc., che è frutto di tecniche di pratiche di colori e di pensieri di ogni periodo storico. Questi meccanismi di fondo andavano recuperati per creare immagini. Egli rinvenne una grammatica organizzata di immagini comune a tutti gli uomini. Il paradigma dei segni variava o mutava del tutto a secondo delle tecnologie e della strategia della organizzazione rappresentativa che esse inducevano attraverso i tempi. 
La familiarità dei segni, ci induce ad interpretarli. Non è importante come ogni singolo uomo interpreta quei segni, bisogna aspettare e ricercarcare un ordine nei segni — o nelle forme —, un codice relazionale che induca l’uomo ad una interpretazione. Ogni uomo poi sovrappone il senso e il giudizio che più gli è familiare, a partire dal punto di vista attraverso cui guarda. 
Da questa ottica l’arte va intesa come «generatrice di significati» variabili, indipendentemente dal messaggio dell’artista. 
Cohen indirettamente stava riflettendo sulle teorie dell’arte contemporanea. Queste teorie considerano più importanti le strutture mentali attraverso cui decodificare le immagini o entrare nel mondo della produzione artistica. Le tecniche e gli strumenti coevi collegano un fruitore con un artista di qualsiasi periodo storico, in base alle tecniche di informazione che collegano artista e fruitore in uno scambio che definiamo arte. Questa è estetica cibernetica, o dell’informazione. 
Cohen si rivolse a scoprire le procedure, per costruire un programma che disegnasse immagini primitive, che stimolasse i fruitori nell’evocare o provare una sensazione simile a quella che egli aveva sentito nel rinvenire quei petroglifi nel canyon. 
Un computer che disegna comunque stimola un fruitore a scoprire l’ordine mentale attraverso cui quel sistema operativo crea le proprie produzioni. Quando ciò accadeva Cohen era ben cosciente che il computer non intendeva trasmettere alcun significato, perché possedeva soltanto alcune regole sintattiche del disegno: ma sorgeva il problema delle prime macchine comunicative autodirette, queste potevano lasciare traccia delle proprie opere di segni. Quei segni tracciati autonomamente dalle macchine sono, o non sono ancora artistici? 
Nel 1974, Cohen, ormai padrone della programmazione ritorna da Stanford a San Diego e continua a dettare altre regole al suo programma fino a riempire quasi un centinaio di pagine. 
Cohen chiamò questo programma Aaron. 
Egli diede al programma informazioni su tre relazioni fondamentali nel disegno e sulla loro compresenza o esclusione, in base alle regole della scelta e della presenza. Circa trecento regole costituivano le differenze e le scelte in base alle quali il programma poneva le differenze tra esterno ed interno, tra figura chiusa e figura aperta e, infine, tra figura e sfondo. 
Egli suddivise il lavoro artistico in vari segmenti di programmi, che si attivavano ognuno, volta per volta. In base a una procedura di feedback, o retroazione, che ha analogia con la logica e la analisi psicologica, veniva controllata la procedura della costruzione di segni. Non avendo Aaron occhi, immagazzinava informazioni e procedeva operativamente per una matematatica divisione dello spazio. 
Le regole, del tipo «se… allora…», erano custodite dagli «esperti», questi si possono definire una sorta di programmi satelliti che si interrogono (o si aprono) attraverso l’Hersay-II. 
La volontà di Cohen era che il suo programma Aaron disegnasse linee e, poi, figure, in base alle regole che venivano dettate e scelte arbitrariamente dallo stesso programma, partendo casualmente, come se fosse il programma stesso un artista. 
Il primo esperto, che il programma chiamava a costituire il disegno, era l’ersperto Artwork (opera), che a caso sceglieva il punto di partenza. Subito dopo veniva evocato il secondo esperto, questi era il Planner (progettista). Il Planner sceglieva ad esempio di tracciare una linea immagazzinata nella sua memoria, ma solo l’esperto Line (linea) sceglieva il punto iniziale e quello finale. Poiché Cohen non desiderava che i disegni somigliassero ai progetti tecnici, Line doveva così chiamare un altro programma, Sectors (settori), non solo per tracciare le linee tra i punti scelti, ma doveva preoccuparsi di trovare dei punti intermedi tra l’inizio e la fine, e anche fungere da segnalatore. I segnalatri, non soltanto erano i responsabili dei vari settori attraverso i quali passava la linea programmata, ma anche calcolava le nuove traiettorie approssimative in base alle quali, questa linea appariva non geometrica ma tracciata come se fosse a mano libera. Quest’altra funzione pratica era delegata al programma Curves (curve). Dopo aver tracciato una linea si procedeva a riempire con altri segni il foglio, in modo che ci fosse un controllo della composizione. Artwork, stabiliva la conclusione dell’opera, in base a rapporti di probabilità programmate che variavano ogni volta che si tracciavano dei segni. 
Appena veniva ultimata una singola figura, o il tracciato, Arwork riassumeva il controllo delle operazioni scegliendo un’altra area da riempire. Per poter far ciò bisognava di nuovo chiamare Planner, che stabiliva casualmente la nuova area da riempire e che tipo di linee tracciare Successivamente veniva reclutato Line che calcolava i punti scelti, e con Sector e Curves l’intero programma Aaron realizzava la figura o il segno. 
Vi erano regole per accostare linee rette o a zig zag con figure aperte o chiuse, regole per riempire una figura con i contorni già disegnati; altre regole indicavano se era opportuno o meno tracciare in una figura chiusa linee, o ombreggiarla esternamente o internamente, se dividerla in sezioni, ecc. 
Le regole dell’Artwork controllavano sia in che modo si fossero distribuite le immagini sul foglio, che queste non si sovrapponessero. Queste regole furono adottate per il periodo in cui Aaron era autore di petroglifi, poi, negli anni ’80, per l’inserimento di effetti prospettici, il programma fu fornito anche di regole per sovrapporre figure. 
Cohen stava programmando il computer con le stesse caratteristiche di un essere umano, anche le sue decisioni all’inizio erano frutto di scelte casuali. L’indecisione nelle scelte veniva risolta dal comando «la soluzione intermedia è quella più accettabile». In questo modo tutte le microdecisioni avevano il carattere di indecisione e le traiettorie diventavano imperfette matematicamente. 
La risoluzione di Cohen fu quello di dare l’ordine di andare avanti, di procedere nel disegno anche con le imperfezioni senza preoccuparsi delle scelte; poi, col feedback, si aggiustavano inesattezze e imprecisioni del segmento precedente. Il controllo finale era nelle mani del programma Curves, che procedeva come un artista che avesse tenuto costantemente sotto controllo la produzione della propria opera. 
L’opera del computer sebbene iniziasse con scelte casuali, man mano che apparivano elementi sul foglio, il programma decideva come proseguire la composizione, determinando le figure successive. Queste scelte erano indicate come casistica di percentuali, sia per quanto riguarda lo stile che il senso estetico. 
Gli elementi comunque furono programmati in base al gusto di Cohen e tradotte nel computer in base alle regole euristiche di «se… allora…». 
Nel 1976 Cohen decise di costruire un robot che disegnasse le forme elaborate dal computer. Fino ad allora egli aveva lavorato su di un visore, per cui le creazioni di Aaron venivano perse una volta spento il computer. 
Egli volle mostrare come Aaron, l’artista tecnologico, lavorava mentre creava un disegno. 
Cohen costruì personalmente un congegno elettromeccanico con un sistema sonar, che chiamò «tartaruga». Questo rudimentale robot, fornito di una penna, era un piccolo congegno che veniva comandato a distanza, ma che divenne la mano del prima artista meccanico da noi conosciuto. 
Cohen metteva questa tartaruga su di un foglio, che tramite un cavo era collegato ad Aaron. La tartaruga, inoltre, era in contatto col programma anche attraverso un sonar. Aaron comunicava con essa tramite segnali che correvano lungo un cavo, mentre il sistema sonar serviva a segnalare la posizione della tartaruga sul foglio. Aaron calcolava la posizione della tartaruga avvalendosi di due ricevitori sonar posti agli angoli del foglio e che erano in contatto con la tartaruga sulla quale era montato il sonar. In base al tempo che i segnali impiegavano a raggiungere i ricevitori, Aaron poteva stabilire con precisione la distanza e la direzione della tartaruga. Prendendo poi per precisa la precedente posizione, Aaron poteva dedurre la direzione in cui si stava spostando. 
Nel 1987, Cohen presentò Aaron e la tartaruga a due mostre: alla Documenta VI, a Kessel, nella Germania, e allo Stededlijk Museum di Amsterdam e due anni dopo vi fu una dimosrazione al Museo d’arte moderna di San Francisco. 
Le immagini che Aaron disegnava ricordavano i petroglifi. 
L’impatto col pubblico fu sorprendente. Alcuni pensavano a figure preprogrammate, che il computer poi riproduceva meccanicamente. Altri vedevano un vagare a casaccio di Aaron sul foglio. 
Aaron invece eseguiva i disegni in base a programmazione e casualità, accomunati da un certo stile inserito nel programma. 
Questo stile divenne evidente, quando negli anni ’80, Aaron divenne un autore di forme visive definite e con l’immissione di piani prospettici. 
Lo stile, sebbene alcuni critici facessero risalire alle opere giovanili di Harold Cohen, fu definito aaronesco. Era un modo singolare di disegnare, per cui il tutto diventava una singolarità superiore alla somma delle parti. 
La grammatica di Aaron poteva generare tutta una serie di possibili disegni di un certo tipo, allo stesso modo di come semplici regole grammaticali generano una complessità di linguaggio, senza rivolgersi a nessuna metafisica o misticismo. 
I petroglifi di Aaron sono frutto di semplici regole sintatiche relative alla forma, senza contenuti. 
Le vere differenze che si riconoscono sono fra chiuso o aperto, interno o esterno, figura e sfondo. I significati vengono poi ritrovati dagli uomini. 
All’inizio degli anni ’80 Cohen sostituì la tartaruga con un comune plotter di computer. Le operazioni della creazione artistica di Aaron si velocizzò, le figure divennero più precise, e il tempo si ridusse da quattro ore iniziali a qualche decina di minuti. 
Fu allora che molti iniziarono ad interrogarsi su chi fosse il vero artista. 
Sebbene il programma fosse stato scritto da Harold Cohen era Aaron che prendeva le decisioni che servivano a produrre le forme artistiche. 
Alcuni critici pensavano che dovesse essere Cohen a firmare quelle opere. Tutto dipende quale secondo noi sia la vera opera d’arte: Aaron stesso, o i disegni che produce?, o entrambi? 
A partire dal 1977 fino al 1986,  prima che non ci fossero memorie ancora più potenti nel computer per immagazzinare programmi sempre più lunghi e complessi, Cohen procedette ad integrare le regole sintattiche di Aaron con regole sematiche. 
Si sa che con una memoria più ampia si possono integrare nuove informazioni al programma progettato. 
La Digital Equipment Corporetion dopo le esposizioni dei suoi lavori del 1983 gli fornì la macchina di cui Cohen aveva bisogno per ampliare il suo programma. Fu cosí che Cohen ebbe in dotazione un computer VAX-750, che allora costava 125.000 dollari. 
Con l’immissione di nuove informazioni nel programma, Aaron incomincia a disegnare e a riconoscere un corpo. Il programma inizia a disegnare consapevolmente persone umane. 
Quanto il programma raccoglieva e sapesse del mondo influenzava il proprio modo di disegnare. Questa è stata la prima fase della nuova evoluzione di Aaron. 
In seguito Aaron imparò a riconoscere i blocchi e li disegnava. Blocchi o cumuli di pietre, e le forme umane stilizzate, con questo nuovo computer, diventavano sempre più precise e si integravano sempre meglio. 
   È chiaro il processo di complessità del programma stava continuando. Con la rappresentazione di figure e di blocchi si era passato negli anni ’80 a dare istruzioni non più per identificare segni, ma bisognava dare istruzioni per costruire delle rappresentazioni. 
Le rappresentazioni propongono altre variazioni e complessità al programma Aaron. Cohen dovette modificarlo a partire dal 1985, inserire informazioni sui movimenti e sulle gestualità delle figure, come ad esempio le principali parti del corpo inmteragiscono tra loro e quale varietà di movimenti possono compiere o, ad esempio inserire la regola per poter ottenere l’impressione del ripiegamento laddove l’oggetto s’incurva. 
Procedendo su questo allargamento di della varietà  di informazioni le conoscenze «semantiche» di Aaron sul disegno si ampliavano, per cui un altro programma, che Cohen ha chiamato Tutor (istruttore) si aggiunse a quelli. 
Man mano che si procedeva il programma diventava sempre più complesso fino a prevedere delle automodificazioni delle strutture. 
I disegni miglioravano di continuo e Cohen di questo era felice perchè il suo fine era quello di demistificare la creatività. Tutto avviene attraverso processi mentali. Conoscere le strutture e le regole permette a chiunque di realzzare grandi opere «artistiche» con un normale hardware intellettuale. 
Cohen nel suo desiderio di far diventare la creatività un fenomeno normale si è spinto sulla strada dell’arte cibernetica. Di trasferire, cioè, in un hardware le proprie convinzioni sul disegno e di costruire un elaboratore che, in base al proprio sistema compositivo, producesse opere d’arte. 
In occasione della mostra alla Tate Gallery di Londra del 1983 Cohen vendette i disegni di Aaron a 20 dollari. Alcune di queste opere poi furono colorate dall’artista inglese e furono vendute ad un prezzo di 2.000 dollari.
Mentre Cohen perfezionava Aaron, altri artisti, si cimentavano con altri programmi per creare computer artisti. Racter, un programma costruito dallo scrittore William Chamberlain e dal programmatore Thomas Etter, che generavano una prosa stilisticamente compiuta, tra la tecnica dadaista e con risvolti surreali. 
Le composizioni furono raccolte nel 1985 in un libro intitolato La barba del poliziotto è costruita per metà. 
David Alex Lewitt, ricercatore del dipartimento di AI al MIT di Boston, il cui direttore era Marvin Minsky, sviluppò un programma sulla musica, partendo da procedimenti psicologici, riflettendo su come si struttura una compsizione musicale e quali aspettative genera in un ascoltatore. Nonostante questi non volesse creare un improvvisatore automatico, ma uno strumento che fosse di aiuto ai compositori, egli ha dato l’avvio ad un sistema nel 1985 di un compositore meccanico. Questo comnpositore creava opere sullo stile di Scott Joplin, che l’artista non aveva mai scritto. 
In Italia è difficile trovare oggi persone che studiano e sperimentano la AI, con finalità di trasferire al computer informazioni che un programma possa automodificare. Tra i ricercatori-«artisti» che ho conosciuto e che più o meno si muovono in questa direzione si possono considerare antesignani della cibernetica in Italia Pietro Grossi, Maurizio Bolognini, Bruno Di Bello, Marco Cardini, Celestino Soddu e Enrica Colabella. Di questi solo gli ultimi due, architetti al Politecnico di Milano, sono inequivocabilmente protèsi a trasferire informazioni ad un programma che raccolga informazioni per un’arte tutta del computer, per gli altri vi è ancora interazione tra persona-sperimentatore, o essere umano-artista, e computer. Questo apre un altro capitolo sulla evoluzione del biologico connesso al tecnologico, di cui la cibernetica è ancora la scienza che ne studia i dettami e i tracciati. 
Voglio invece concludere con una riflessione sulle parole di Cohen scritte per il Convegno Internazionale Congiunto sull’Intelligenza Artificiale, che si tenne a Tokio nel 1970 «“L’arte si può considerare come un gioco elaborato in modo sofisticato, caratterizzato da uno strano fatto, che all’interno della mente alcune cose possono rappresentarne altre”. L’arte che incontriamo nei musei si presenta come “un complesso intreccio” della sensibilità individuale dell’artista e del periodo storico-culturale in cui questi vive. “In ultima analisi il processo artistico, indipendentemente dalle sue manifestazioni, ha di per sé un carattere universale, perché rappresenta la celebrazione della mente umana”». 
Fatto indiscutibile è che stiamo trasferendo i sistemi mentali alla macchina, e tra breve, attraverso le nanotecnologie, indosseremo e assimileremo le macchine al nostro sistema biologico vivente umano (senza pensare a quanto dovrà accadere con l’evoluzione della bio-tecnologia). 
L’uomo biologico e tecnologico hanno una comune direttrice: l’informazione. In questa (informazione) la mente umana oggi si autocelebra attraverso le invenzioni scientifico-«artistiche». Anche la critica d’arte d’oggi, non a caso, si svolge più come informazione sulla costruzione dell’opera, o sulle «radici intellettuali» o sul «sentire», dando al fruitore mezzi interpretativi che si muovono tra conoscenze scientifiche, artistiche, poetiche ed estetiche contemporanee. Avendo l’uomo, in tutte le manifestazioni della vita espresse dal pensiero, compresa la tecnologia, trovato una radice comune nell’informazione, si può ipotizzare che ben presto tra queste differenti — e, per molti, ancora inquietanti — presenze, non si riuscirà finalmente a distinguere la differenza. 
La mia sperenza è che l’arte sappia trovare forme per accelerare questo processo. Il problema in questo momento che la filosofia cibernetica è impegnata a risolvere è quello di comprendere se la macchina possa avere la coscienza, o quando e come nell’uomo questa coscienza sorge, per un semplice fatto: «tutto ciò che è spiegabile è programmabile». 

Salerno, 19 novembre,  2003 
        Giuseppe SIANO
 

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